“L’uomo che voleva essere colpevole” di Henrik Stangerup: molto interessante
“L’uomo che voleva essere colpevole” di Henrik Stangerup (Iperborea) è stato il libro della quarta tappa di Librino Express, il gioco ideato da Alessandro di @libri_incammino. Un romanzo molto interessante, che mi ha sorpresa.
TRAMA – Un uomo, dopo una lite violenta, uccide sua moglie. È una sera qualunque, in un appartamento come tanti, a Copenaghen. Ma l’azione si svolge in un prossimo futuro e in una società che molto somiglia all’ideale modello della socialdemocrazia scandinava, deformata quel che basta a renderla più universale. Lo Stato che si prende cura del bene comune «dalla culla alla tomba» si è trasformato in una gabbia di conformismo, regno del consenso e dell’eufemismo, in cui tutto è pianificato e obbligatorio, compresa la felicità. E poiché l’omicidio non è altro che insufficiente adattamento sociale, Torben, l’assassino, viene sottoposto a cure psichiatriche e rimesso in libertà. Ma contro le regole di un sistema che nega la responsabilità individuale, Torben si ostina a voler essere giudicato e punito per quel che ha fatto. L’uomo che voleva essere colpevole è la storia di un processo kafkiano alla rovescia: l’inutile e sempre più assurdo tentativo del protagonista di dimostrare la propria colpa, l’angosciante senso di isolamento, la spirale di dubbi, lo sfaldarsi dell’identità e della realtà stessa diventano emblematici della condizione umana in un mondo che rifiuta la dimensione etica e si illude di delegare alla scienza la soluzione dei problemi morali. Solitari destinati a perdere nella lotta impari contro il proprio tempo, i personaggi di Stangerup, figli di Kierkegaard, preferiscono sempre e comunque prendere il rischio della loro verità e provare a essere «Quel singolo» che il filosofo danese voleva scrivere sulla sua tomba.
Il distopico è un genere al quale faccio fatica ad accostarmi, perché quello che viene raccontato ha sempre un effetto piuttosto traumatico su di me. Ci sono autori così bravi nel descrivere questi scenari futuristici perfettamente plausibili che il timore che qualcuna delle loro previsioni possa avversarsi mi assale sempre, mentre leggo.
Lo stesso è successo con “L’uomo che voleva essere colpevole” di Henrik Stangerup che ha saputo tracciare una società in cui, in teoria, tutto è mirato al conseguimento della felicità; il singolo viene adombrato a favore del bene della collettività, e alcune dinamiche non vengono proprio prese in considerazione.
Lo stato non aveva forse per motto: “Il bene comune dalla Culla alla Tomba”? E allora perché nessuno era felice? Ma cos’era poi la felicità? Nessuno lo sapeva.
In questa società viene negata una “concezione individualistica del mondo”, e qualsiasi forma di “egocentrismo”. Viene abolita “un’educazione minata dal germe dell’individualismo a favore di un’autentica fioritura di corsi di dinamica di gruppo”.
Indottrinamento e conformismo diventano quindi le parole chiave, la prima portata avanti da una costante manipolazione dell’opinione pubblica da parte della stampa e della televisione (e le notizie che stanno circolando in questi giorni non sono tanto distanti). Il protagonista si sente “un’insignificante pedina in un gigantesco progetto superiore, che nessuno sapeva in cosa consistesse, neppure coloro che credevano di saperlo”. Conserva ancora un po’ di chiarezza che gli fa dire che lo vogliono ridurre a un “fantoccio acquiescente”.
Tutto diventa ancora più lucido al suo sguardo nel modo in cui la società tratta la sua colpa. Una notte, in preda a un raptus, uccide sua moglie. Ma chi lo circonda farà in modo da fargli credere che, in realtà, si è trattato di un incidente.
Ma non desiderava essere punito, desiderava solo questo: che si riconoscesse che quella sera era perfettamente consapevole di ciò che faceva, anche se era pieno di whisky. Se invece insistevano che era stato spinto dalle circostanze, allora cos’altro erano quelle circostanze se non il prodotto di una società che non permetteva di parlare d’altro che di circostanze, e che negava all’individuo il diritto a una vita propria, ai propri sogni e alla propria inviolabile identità?
Mi è piaciuto molto il senso di capovolgimento che percepisce il protagonista della storia e che arriva dritto a chi legge. Sono arrivata a chiedermi cosa ci fosse di “reale” nel suo racconto, nella sua versione, rischiando di finire anche io nelle maglie di un sistema che va avanti a forza di suggestioni.
Punizione e colpa sono concetti che non si usano più, quindi. “Le parole e i concetti spariscono a beneficio di altri che naturalmente esprimono la stessa cosa in maniera più flessibile”.
Ho trovato molto interessante tutta la parte dedicata in maniera specifica al linguaggio, a come le parole “negative” possano essere trasformate e non più usate. Mi ha fatto riflettere sull’importanza dei contrari, ma anche su quanto sia fondamentale trovare sempre le definizioni più adatte, le parole giuste.
“L’uomo che voleva essere colpevole” è un romanzo che spinge a riflettere e credo che non potrebbe oggi sia di grande attualità. Vi lascio con un’ultima citazione che spero possa convincervi a leggere questo romanzo, per tentare di comprendere un po’ di più la realtà che noi stiamo vivendo.
Lo psichiatra spiegò che il suo complesso di colpa era un residuo di un passato che poneva l’individuo al centro di tutto e che nutriva una fede incrollabile nell’inviolabilità della “personalità” del singolo. Gli Assistenti erano d’accordo nel vedere in quel caso la dimostrazione di come l’individualismo portasse alla formazione dell’essere perfettamente asociale con tutte le caratteristiche connesse: fuga dalla realtà, egocentrismo maniaco, confusione di sogno e realtà e convinzione che la vita non fosse che un’avventura personale.