“Il violino del pazzo” di Selma Lagerlöf: una dolce fiaba
“Il violino del pazzo” di Selma Lagerlöf (Iperborea) potrebbe essere definita una fiaba, che contiene in sé diversi messaggi.
TRAMA – Bello e talentuoso, Gunnar, studente a Uppsala, più di tutto ama la musica. Solo quando suona il suo violino gli pare che la vita abbia senso: gli basta sfiorare le corde con l’archetto perché il tempo si fermi e la musica sgorghi da sola, mentre nella sua estasi trascina con sé chi lo ascolta. È un dono che ha ereditato dal nonno, come l’amato maniero in cui è cresciuto, che lo distoglie dai suoi doveri di studente. Un pomeriggio tra il suo pubblico c’è Ingrid: lei gira con un gruppo di saltimbanchi con il nonno cieco, anche lui violinista. Ingrid suona la chitarra e sa cantare, ma non ama mostrarsi, anche se i suoi sorrisi illuminano chi la guarda. Rimane folgorata da Gunnar, che con sensibilità ha subito colto l’essenza della sua natura, ma non sa che lui, quel giorno, ha sciolto nella sua travolgente esecuzione il dolore di un annuncio: la famiglia è in rovina, solo i suoi guadagni potrebbero risollevarne le sorti. E l’amico che gliel’ha rivelato gli ha sequestrato il violino perché non si distragga. Ma può un artista vivere privato della sua arte? Può cedere la sua anima in cambio di un maniero? Gunnar, così, si perde nella follia. Le vie della musica, però, come quelle dell’amore, sono imperscrutabili, e c’è chi arriva a riconoscere in suoni sconnessi una melodia e in tratti alterati un volto amato, rimasto impresso un lontano pomeriggio nei sogni e nel cuore. Tra saltimbanchi, musiche indiavolate, una sepolta viva e misteriose apparizioni, Selma Lagerlöf intreccia con il suo stile inconfondibile i toni della fiaba alle peripezie del romanzo d’avventura, per parlare di arte e società, di pazzia e normalità, di speranza e disperazione, di amore e di cura.
Non è mai facile approcciarsi a un testo che contiene diversi messaggi, celati da un racconto che ha il sapore di una fiaba. Non è facile non per quanto riguarda lo stile, o la difficoltà che può trasmettere un linguaggio troppo metaforico, ma perché richiede al lettore uno sforzo in più, un tentativo di andare oltre quelle parole e non solo leggere tra le righe, ma proprio al di là della pagina.
Come si legge nella trama fornita dalla casa editrice, in “Il violino del pazzo” di Selma Lagerlöf Gunnar è un giovane uomo che sembra avere già il destino tracciato, da quello che è il suo cognome, il retaggio della sua famiglia e le responsabilità che ricadranno presto su di lui.
Come succede a chiunque, cerca un’evasione e la trova nella musica, nel suono del violino. Quando però gli viene detto che deve rinunciarci per portare a termine gli studi e poi trovare i soldi per salvare la tenuta della famiglia, inizia a girovagare come venditore, ma quelli che muove in realtà sono i primi passi verso un declino di follia.
Viene etichettata in questo modo la sua condizione, perché lo porta a una ripetizione continua dei gesti, senza nemmeno accorgersi dello scorrere del tempo, e perdendo del tutto le finalità che lo muovono, anche se a mio avviso sembra più che altro una sorta di estraniazione da sé, una vera e propria arma di difesa, una chiusura rispetto a quello che lo aspetterebbe se dovesse liberarsi di quella costrizione dietro cui si è trincerato.
Come spesso succede in questo tipo di narrazione, sarà l’amore a salvarlo. La cura, soprattutto. Ma anche il saper guardare oltre l’apparenza; la creazione di un legame che travalica l’umana comprensione, e che si ammanta di sublime.
Ho trovato molto toccante soprattutto un passaggio de “Il violino del pazzo” di Selma Lagerlöf, verso la fine, in cui Gunnar viene in qualche modo catapultato nella realtà, allontanandosi dalle sue ombre, e realizza fino in fondo le difficoltà e la complessità di quella vita da cui ha tentato di fuggire, e vorrebbe cedere all’oblio, tornare a essere folle per sottrarsi da tutto quanto. La sua titubanza, così profondamente umana, l’ho trovata molto emozionante.