“Stranieri a noi stessi” di Rachel Aviv
“Stranieri a noi stessi” di Rachel Aviv (Iperborea) è stata la lettura della prima tappa di #LibrinoExpress, il gioco creato da Alessandro Leonelli (@libri_incammino su Instagram), che non ringrazierò mai abbastanza per avermi coinvolta.
TRAMA – Rachel Aviv ha solo sei anni quando viene ricoverata con una diagnosi di anoressia. Passano poche settimane e, da un giorno all’altro, ricomincia a mangiare. A differenza delle compagne di reparto già adolescenti – fra cui Hava, tanto brillante quanto tormentata, e così simile a Rachel da sembrarne la sorella – l’anoressia non diventa una «carriera». E se non fosse andata così «bene»? Se il desiderio di emulazione verso quelle ragazze dannate e affascinanti avesse lasciato una traccia più profonda dentro di lei? Qui inizia “Stranieri a noi stessi”, il racconto di cinque vite parallele, cinque persone le cui diagnosi psichiatriche hanno finito per impossessarsi delle loro identità: Bapu, venerata come una santa negli ashram dell’India e bisognosa di cure mentali per la sua famiglia; Naomi, incarcerata dopo un tragico episodio di psicosi e alla ricerca disperata del perdono dei propri figli; Ray, medico caduto in disgrazia che ha dedicato la vita a vendicarsi dei suoi analisti; Laura, promettente studentessa di Harvard che dopo anni di terapie e diciannove psicofarmaci diversi non sa più chi è senza medicine. E Hava, che a ogni nuovo diario si impegna a trovare la forza per superare l’anoressia, ma si sentirà fino alla fine una «straniera a se stessa». Grazie ad anni di studio, interviste e scambi con i protagonisti di questo libro, la pluripremiata giornalista del New Yorker Rachel Aviv scrive un’indagine accorata sui limiti delle nostre conoscenze intorno alla mente umana e sul bisogno che abbiamo di raccontarci e farci raccontare dagli altri nel tentativo di conoscerci. Perché niente come una storia ha il potere di cambiare – nel bene, nel male – la nostra identità e quindi la nostra vita.
“Stranieri a noi stessi” non è un libro che consiglierei a chiunque. Comincio le mie considerazioni dalla struttura. Non si tratta di un romanzo (Iperborea, nella scheda del libro sul sito, identifica il genere come “saggistica narrativa”), perché le testimonianze raccolte dall’autrice, di cinque persone che hanno avuto disturbi mentali e di chi ha gravitato intorno a loro, sono intervallate da riferimenti scientifici, articoli, pubblicazioni, teorie, ma anche fatti di cronaca che documentano come sia evoluto lo studio delle malattie mentali e il loro interesse da parte del governo, americano in questo caso.
Le parti più “tecniche”, se così vogliamo definirle, sono sì scritte in modo accessibile, ma trattano di argomenti complessi che non sono proprio alla portata di tutti. Io per prima ho avuto qualche difficoltà nel districarmi tra termini, definizioni e nomi degli studiosi.
All’inizio ho fatto molta fatica a entrare in connessione con questo tipo di struttura, la trovavo impersonale, e riuscivo a cogliere uno spirale di interesse solo nelle pagine scritte dalle persone di cui si narrava la storia. Il ritmo era troppo serrato, avvertivo come se l’autrice avesse fretta di inanellare tutti gli eventi, uno dietro l’altro, per raccontare il più possibile, sentendo quasi l’esigenza di sostenere queste storie di vita da fatti, ricerche, studi e ideologiche che rispecchiavano quel determinato periodo storico e sociale.
Poi, però, a partire dalla terza storia, quella di Noemi, mi sono lasciata trasportare. Non azzarderei a dire che da quel punto cambia la scrittura di Rachel Aviv, ma che più probabilmente a cambiare è stato il mio approccio nei confronti di “Stranieri a noi stessi“, a partire da una storia che mi ha toccata molto.
Nel libro si parla di Ray, Bapu, Naomi, Laura, Hava. Tutti e cinque hanno avuto, nel corso delle loro esistenze, l’impulso di scrivere della loro malattia, “per quanto si rendessero conto che il linguaggio a disposizione non era del tutto adatto”. Mi è sembrato come se volessero uscire fuori di sé, come se il loro sentire fosse così intenso e totalizzante da doverne riversare un po’ sulla carta.
Come scrive la casa editrice, nella presentazione di “Stranieri a noi stessi“, il bisogno di raccontarci e di farci raccontare dagli altri è un tentativo di conoscerci. E, nei casi che Rachel Aviv ci racconta, è stato quasi un modo per riconoscere uno stato difficile da dire a parole, ma di cui si sentiva spasmodicamente il bisogno di comprendere, etichettare, individuare. Nella ricerca di una comprensione da parte degli altri, che spesso minimizzavano, confondevano, davano colpe.
Come si può pensare di schernire invece che di accogliere? Mi sono fatta questa e tante altre domande durante la lettura di “Stranieri a noi stessi” e mi sono anche chiesta come sia possibile trattare in modo generico casi che sono così singolari. Ma non sono un’esperta o una studiosa, non sono qui per capire certe logiche ma come sempre per continuare a pormi degli interrogativi, in modo da non giudicare con l’accetta e provare, invece, a muovere i primi passi verso un ascolto attento.
Come dicevo prima, gli spiragli in cui l’autrice getta tra le pagine delle frasi prese dai racconti manoscritti di Ray, Bapu, Naomi, Laura, Hava sono quelli che ho preferito, perché hanno un’intensità che va oltre qualsiasi costrutto narrativo o dettame stilistico. Colpiscono dritto al cuore per la loro spudorata autenticità, che mostra sia la forza che la fragilità di questi esseri umani.
Le storie che più mi hanno colpita sono quelle di Naomi e di Laura. Ma, attraverso il racconto di tutte e cinque le vite narrate, è stato lampante come il contesto sociale, i pregiudizi, le differenze di classe, di razza, le condizioni ambientali, giochino un peso enorme nell’evoluzione della malattia, ma soprattutto nell’approccio a una cura.
Alcuni passaggi vi sembreranno incredibili, vi trasporteranno in un tempo e in un contesto che sembra uscito da un’epoca lontanissima quando a conti fatti non è così; vi chiedere come sia possibile, sapendo ciò che conoscete oggi, ma come ogni altro ambito medico e scientifico, anche l’approccio alle malattie mentali ha avuto i suoi passaggi, e molta strada ancora c’è da fare.
A Rachel Aviv è stata diagnostica l’anoressia a sei anni. Lei è una di quelle che “ce l’ha fatta”. Credo che “Stranieri a noi stessi” sia uno di quei libri che partono da una serie di domande che iniziano tutte con: “E se…?”. Forse alcune risposte non le troverà mai, ma è stato molto intenso accompagnarla in questo viaggio.