“Sortilegi” di Bianca Pitzorno: incantevole
Chi mi conosce sa già quanto io ami Bianca Pitzorno. Con il suo ultimo lavoro, “Sortilegi” (Bompiani), mi ha, ancora una volta, stregata.
TRAMA – Mentre infuria la peste del Seicento, una bambina cresce in totale solitudine nel cuore di un bosco e a sedici anni è così bella e selvatica da sembrare una strega e far divampare il fuoco della superstizione. Un uomo si innamora delle orme lasciate sulla sabbia da piedi leggeri e una donna delusa scaglia una terribile maledizione. Il profumo di biscotti impalpabili come il vento fa imbizzarrire i cavalli argentini nelle notti di luna. Bianca Pitzorno attinge alla realtà storica per scrivere tre racconti che sono percorsi dal filo di un sortilegio. Ci porta lontano nel tempo e nello spazio, ci restituisce il sapore di parole e pratiche remote – l’italiano secentesco, le procedure di affidamento di un orfano nella Sardegna aragonese, una ricetta segreta – e come nelle fiabe antiche osa dirci la verità: l’incantesimo più potente e meraviglioso, nel bene e nel male, è quello prodotto dalla mente umana. I personaggi di Bianca Pitzorno sono da sempre creature che rifiutano di adeguarsi al proprio tempo, che rivendicano il diritto a non essere rinchiuse nella gabbia di una categoria, di un comportamento “adeguato”, e che sono pronte a vivere fino in fondo le conseguenze della propria unicità. Così le protagoniste e i protagonisti di queste pagine ci fanno sognare e ci parlano di noi, delle nostre paure, delle nostre meschinità, del potere misterioso e fantastico delle parole, che possono uccidere o salvare.
“Sortilegi” raccoglie tre racconti, di lunghezza e di argomento diverso, che contengono tutta la potenza narrativa di Bianca Pitzorno. Filo rosso è proprio il “sortilegio”, un incantesimo, una magia, una pratica rituale.
Nel primo racconto, “La strega”, la Pitzorno ci racconta com’è facile trovare un bersaglio per l’odio, qualcuno con cui prendersela e a cui dare la colpa per ogni male, per ogni tragedia. Com’è facile trasformare un bisbiglio in un vociare, e infine in una ferrea convinzione. Com’è facile sfigurare la realtà con le proprie convinzioni.
I fatti narrati si svolgono nel ‘600, in pieno periodo di peste e di caccia alla streghe. Quella di Caterina è una vicenda triste, disperata, che narra la cronaca degli orrori di quel tempo, in cui si agiva convinti di essere nel giusto, trincerandosi dietro la religione per giustificare barbarie inaudite.
Da parte dell’autrice c’è un’incredibile cura nella scelta delle parole che sembrano un ricordo lontano. Il linguaggio non è “aulico”, ma aderente ai tempi della storia, e avvolge a tal punto da azzerare le distanze.
“Un italiano straordinariamente espressivo, antico ma non antiquato, musicale, malinconico o ironico a seconda dell’argomento”. Bianca Pitzorno in una nota dichiara di aver tratto spunto dalle “Lettere al padre” di suor Maria Celeste, al secolo Virginia Galilei, figlia dello scienziato.
Sempre nella nota, l’autrice ci racconta che oltre a quelle lettere, a darle la spinta a raccontare la storia di Caterina e dei suoi compaesani è stato “il meccanismo terribile con quale una comunità, in un periodo difficile, passo dopo passo arriva a creare un capro espiatorio che poi nessuno sarà più in grado di difendere”.
Un testo che l’autrice scrisse nel 1990 e che è stato ripreso oggi, rivisto e ampliato, dopo aver constatato quante “affinità abbia questa storia con l’attuale situazione di isolamente e solitidune, di paura e sospetto causata dal virus”.
Nel secondo racconto, “Maledizione”, un forestiero confessa a una giovane donna che “prima di innamorarsi di lei si era innamorato delle orme dei suoi piedi scalzi che un giorno aveva visto impresse sulla sabbia delle riva”. Una bellissima favola, in cui la cattiveria viene sconfitta dall’innocenza, dalla bontà d’animo. Spunto per la narrazione, un oggetto molto particolare che viene raccontato in un’altra nota dell’autrice.
Protagonisti dell’ultima storia, “Profumo”, sono il vento e una “fragranza magica e squisita”. Un delizioso pretesto per parlare di nostalgia, di tradizioni, di unicità. Che voglia di assaggiare un “biscotto del vento”!
Il tono della Pitzorno rimane sempre quello della favola, di quel tipo di racconto che si tramandava oralmente, davanti al fuoco. Ma le vicende narrate sono saldamente ancorate alla realtà, legate ai tempi in cui si svolgono, non “archetipi di una realtà crudele, non fantasie”. E quando finalmente si riesce a coglierne la differenza, la forza di queste pagine arriva quasi con prepotenza nel cuore di chi legge.
Ancora una volta personaggi unici e la consapevolezza che l’animo umano è tinto da molteplici sfumature. Sfumature che Bianca Pitzorno sa perfettamente cogliere e trasformare in parole.