“Una donna nella notte polare” di Christiane Ritter: molto emozionante
Christiane Ritter in “Una donna nella notte polare” (Keller) narra l’impresa eroica che ha scelto di compiere negli anni ’30: vivere un anno in una sperduta isola al nord della Norvegia. Per nostra fortuna, ha deciso di raccontarcela.
TRAMA – Nel 1934 Christiane Ritter lascia l’Austria per raggiungere la remota isola artica di Spitsbergen, dove fermarsi per un anno assieme al marito. Pensa che sarà un viaggio rilassante, un’opportunità per rimanere accanto “al tepore della stufa, e limitarmi a sferruzzare, dipingere guardando fuori dalla finestra, leggere libroni nella calma più remota e soprattutto dormire a volontà”. Ma quando Christiane arriva a destinazione si ritrova di fronte a qualcosa di molto meno bucolico e romantico: una capanna piccola e malmessa, posta sulla riva di un fiordo solitario a centinaia di chilometri di distanza dall’insediamento più vicino, e la necessità di combattere ogni giorno con gli elementi della natura per sopravvivere. All’inizio Christiane è inorridita dal gelo indescrivibile, dal paesaggio immerso in un sempre più lungo crepuscolo, dalla mancanza di ogni attrezzatura e della ben che minima comodità, dall’assenza di rifornimenti… Ma col passare del tempo, dopo incontri con orsi e foche, volpi artiche, lunghe camminate sul ghiaccio e mesi al termine della notte senza fine, si ritrova innamorata dell’Artico ostile, della sua bellezza irreale, conquistando così un grande senso di pace interiore e una rinnovata gratitudine verso la sacralità e l’incanto della vita.
Lascereste la vostra vita per trascorrere un anno su una remota isola artica? Io probabilmente non resisterei nemmeno una settimana. Christiane Ritter l’ha fatto e, come se non bastasse, era il 1934.
Ho sottolineato diversi passaggi di questo libro perché il racconto diretto dell’autrice è molto divertente e in altre parti davvero commovente. Vi metterò in questo post diverse citazioni perché le sue parole sono, a mio avviso, il modo migliore per raccontarvi “Una donna nella notte polare“.
Cosa spinge una donna a compiere un’impresa del genere? La Ritter è partita impreparata, con enormi valigie e con convinzioni errate. Nelle pagini iniziali ci racconta il suo viaggio e l’arrivo:
“Vede, lì c’è la sua capanna” dice il giovane norvegese accanto a me, indicando un puntino nella nebbia. E in effetti in lontananza si comincia a distinguere un tratto di costa, lungo, grigio e desolato, con sopra una specie di scatoletta che sembra arrivata lì per caso, trasportata dalle correnti: quella dovrebbe essere la nostra capanna.
Christiane pensa che quello sia “un posto orrendo” appena lo vede. O meglio, lo “percepise” in mezzo a tutta quella nebbia. “Più inizio a distinguerla e meno mi sembra allettante”, continua. Fino a una considerazione chiara e semplice: “Qui possiamo vivere, ma qui possiamo anche morire, come preferiamo, nessuno ce lo impedirebbe”.
Non dimentichiamo che è sempre il 1934.
Come se non bastasse, deve fare i conti con un marito “diverso” da quello che era in Europa. Più calmo, meno suscettibile.
Mi stupisco di mio marito, che pare aver completamente dimenticato com’è abituata a vivere un’europea. Dà per scontato che anch’io debba sentirmi a mio agio in questa misera capanna, circondata da feroci predatori. Trovo quantomeno indelicato il suo modo di introduermi in questa terra selvaggia.
Mi ha fatto sorridere non solo la descrizione della scena, che per lei sarà stata tutt’altro che divertente, ma anche la scelta di parole usate per raccontarla.
Christiane, però, con il passare dei giorni, inizia a comprendere quella “imperturbabilità” che vede nel marito e nel marinaio Karl che vive con loro, iniziando a capirne il senso profondo. Si fa sempre meno domande, si inserisce in un contesto così difficile con coraggio e a volte un pizzico di incoscienza.
Ma non è solo quello. Le toccherà fare i conti anche con una nuova concezione del tempo,
Qui non esistono i giorni perché non esistono le notti. Le giornate si fondono le une con le altre, non si capisce dove termina l’oggi e inizia il domani, né a cosa si allude parlando di ieri.
e dello spazio che la circonda. Bellissime sono tutte le descrizioni, anche quando sono una vera sfida per chi scrive:
Non sono immagini per l’occhio umano. Questo spettacolo – lo spettacolo del mondo polare che piano piano viene risucchiato dalle tenebre – si svolge in completo silenzio, nell’isolamento più totale, in una continua metamorfosi che ha qualcosa di stregato.
Per non parlare delle pagine in cui ci racconta dell’aurora boreale:
A livello figurativo è un’impresa già solo conciliare il paesaggio e l’aurora boreale, perché restano due componenti a sé stanti. Volendo cogliere l’essenza del paesaggio, la luce risulta estranea e sovradimensionata. Se invece ci si concentra sulla resa della luce, allora l’elemento vivo e luminoso sarà il cielo, ma la terra apparirà morta e inespressiva.
E ancora, altri colori che non ti aspetti:
Mi tolgo la maschera da sci per apprezzare i colori del ghiaccio: le aree pianeggianti e i morbidi pendii sono di un luminoso rosa cremisi, mentre tutto ciò che si discosta dal sole vibra nei colori dello spettro, dal lilla a un intensissimo cobalto nella loro veste più pura e celestiale.
In “Una donna nella notte polare“, l’autrice racconta anche i momenti duri, durissimi, di quella notte senza fine, di quel buio che arriva a confondere la mente, mettendoti in relazione con un Io così profondo che fa più paura della bufera che non smette di cessare.
E poi l’emozione di un raggio di sole che dura il tempo di un istante, della vita che torna, dei ritmi della natura, dei misteri che cela. Emozioni così intense che metterle su carta sarà stato estremamente difficile, ma la Ritter riesce anche in quest’altra impresa, nel farle giungere a noi quasi intatte.
Le riflessioni sono tante. Il rapporto con se stessi, con gli altri, con la natura, il rispetto verso il pianeta che ci ospita, la necessità di ripensare il proprio tempo e le proprie priorità. Alla fine credo che la Ritter abbia voluto dirci che non è necessario arrivare fino a un punto così estremo per renderci conto che possiamo cambiare. Basta solo fare il primo passo nella giusta direzione.