“Sedici parole” di Nava Ebrahimi: molto intenso
“Sedici parole” di Nava Ebrahimi (Keller) è un libro piccolo ma potente. Una lunga riflessione sull’identità, su chi siamo e su chi vorremmo essere, sui legami che intrecciamo, su quelle verità che ci vengono celate. Sulla vita, insomma.
TRAMA – Dopo la morte della nonna, Mona decide di tornare in Iran per un ultimo saluto a quella donna testarda, orgogliosa, con la battuta sempre pronta – e spesso inappropriata – sulle labbra. Il Paese che trova è una terra ormai inafferrabile, in parte sconosciuta, da lasciare in fretta per tornare alla solita vita di Colonia con il lavoro da ghostwriter e le serate nei club musicali. Ma l’incontro con un vecchio amore e un viaggio a Bam – l’antica città che dopo un disastroso terremoto è solo il fantasma di ciò che era un tempo – cambia ogni cosa. Quella visita si trasforma in un confronto inatteso con le proprie origini e la storia di famiglia, con segreti di cui è sempre stata all’oscuro. Attraverso sedici parole, una per ogni capitolo del romanzo, Nava Ebrahimi ci conduce in un viaggio magico e poetico nel cuore di un Paese pieno di silenzi ed enigmi. Si muove tra infanzia ed età adulta, racconta un mondo di donne forti, misericordiose e talvolta crudeli, di uomini e sogni, di sconfitte e dignità, di fughe e amori nascosti. Sedici parole è stato premiato come Migliore debutto dell’anno in Austria e ci regala una voce nuova, sensibile e acuta della letteratura che si muove tra culture diverse.
“La chiami forse vita, quella che fai? Ma quand’è che ti svegli?”.
Mi guarda fisso negli occhi.
Sono costretta a ridere.
“Maman, smettila. Chi è che chiama vita la propria vita? Tu?”.
“Sedici parole” è uno di quei libri che arrivi a “capire” soltanto quando lo termini. La visione di insieme si allarga a tal punto da inserirne la comprensione, che fino a quel momento era parsa solo nelle vesti di sospetto o di diffidenza.
È un libro senza una vera e propria trama, che oscilla tra più piani temporali e che accoglie così tante riflessioni che bisogna prendersi del tempo per assimilarle.
È la storia di Mona, la quale appare perennemente in bilico per poi farci ricredere; una giovane donna alla ricerca di identità, ma solo quando torna alle sue radici; una protagonista che potrebbe fare più domande, ma che probabilmente sa che le risposte non sempre sono facili da ascoltare.
Mona ci racconta di culture lontane dalla nostra con una curiosa attenzione per i dettagli e per le cose più strane. Ma questa distanza non è reale: Mona ci è vicina nelle sue fragilità, nel suo essere figlia, amante. Nei tratti marcati del suo viso che la identificano prima ancora che si presenti, nelle sue disillusioni, nelle sue provocazione, nei suoi silenzi.
Mona ci racconta molto stando zitta e ferma. Ci impone di riconsiderare la strada fatta finora nel momento in cui lei stessa si mette in viaggio. Un viaggio che anche qui diventa metafora di un percorso compiuto dentro se stessi, lo sguardo sul futuro che si chiarifica solo facendosi largo tra i ricordi, fino alla volontà, o la necessità, di essere comprensiva.
Questo è un passaggio significativo in “Sedici parole“. Mona sarà (dovrà essere) comprensiva nel duplice significato: il primo, quello di comprendere, includendo tutti gli elementi; il secondo, quello di provare umana comprensione verso gli altri.
Ma insieme a questo, arriva anche il perdono? L’accettazione? “Sedici parole” non dice tutto, molto rimane sospeso e forse il fascino sta proprio in quell’altro tipo di silenzio, in ciò che viene negato, in quei sentimenti in cui non si scava a fondo, perché non è quello il punto. Non è lì che bisogna guardare.
Ma altrove, verso parole che ci identificano, che raccontino di noi, che sappiano davvero dirci chi siamo. Perché la ricerca è sempre la stessa, ma a volte non bisogna andare troppo lontano per trovare le parole giuste.