“A me puoi dirlo” di Catherine Lacey: l’autrice torna a spiazzarmi
Catherine Lacey torna in libreria, ancora una volta con un romanzo spiazzante, pieno di domande, di rimandi. Ci ha consegnato “A me puoi dirlo” (Sur) e la storia di Panca: sta adesso a noi capire come comportarci.
TRAMA – In un paesino di provincia arriva una persona sconosciuta. Gli abitanti la trovano addormentata sulla panca di una chiesa, dove si è fermata a cercare riparo durante la notte. Ha un’età giovane ma indefinita, la pelle di un colore diverso dalla loro, e a prima vista è impossibile stabilire di che sesso sia. Capisce la loro lingua, ma si rifiuta di parlare e raccontare la sua storia. La comunità, unita da una forte fede religiosa, si dichiara pronta ad accoglierla: ma sarà in grado di farlo davvero? Nei sei giorni successivi (quelli che precedono il «Festival del Perdono», una tradizionale cerimonia di catarsi collettiva), gli abitanti del paese tenteranno in tutti i modi di fare i conti con questa figura inerme ed enigmatica che li lascia continuamente in scacco, e finiranno per essere loro a mettere a nudo i propri sentimenti più profondi, le proprie paure, le proprie ipocrisie.
Ho conosciuto Catherine Lacey a una presentazione del suo straordinario romanzo d’esordio, “Nessuno scompare davvero“. La potenza narrativa di quel libro ritorna – con temi diversi, ma sempre molto forti – in “A me puoi dirlo“.
L’input è tanto semplice quanto incredibilmente originale. In questa comunità americana, intrisa di stereotipi, di limiti, di convinzioni retrograde e pie illusioni di perdono, arriva una persona sconosciuta. La trovano addormentata su una panca in chiesa, e da allora, dato che non parla e non risponde a nessuna delle domande che gli/le rivolgono, verrà chiamata Panca.
Sì, perché di Panca non si capisce l’età, la provenienza, né il sesso. Per molti è un problema, ma Panca continua a non capirne il perché.
Che cos’era che rendeva il corpo umano così importante? Perché la gente era convinta che il corpo umano dovesse avere un certo aspetto?
Il corpo quindi diventa un ostacolo alla comunicazione; la mancanza di comprensione di quel corpo diventa barriera, muro.
Non potremmo mettere in relazione solo i nostri pensieri?, si chiede Panca. Questo ci porta a riflettere su quanto sia difficile – forse impossibile – aprirci agli altri quando i nostri corpi ci etichettano e ci stereotipano prima ancora di aver aperto bocca. Corpi che creano legami o distanze, a seconda del nostro interlocutore.
Veniva da chiedersi, allora, se tutti i problemi derivassero dai nostri corpi, quelle cose precarie, più deboli o più forti, più chiare o più scure, più alte o più basse. Perché ci creavamo così tanti problemi? Perché li usavamo per metterci l’uno contro l’altro? Perché pensavamo che il contenuto del corpo significasse qualcosa? Perché usavamo il corpo per trattare le nostre conclusioni quando il corpo stesso è così sconclusionato, inaffidabile?
Ma è il mutismo di Panca che più mi ha fatto pensare. È strano come una persona che se ne stia in silenzio non faccia altro che sentirsi ripetere: “Quando vuoi, sono qui per ascoltarti”. E allora perché quando parliamo è così difficile farci ascoltare? Trovare qualcuno che sia disposto a farlo veramente?
Panca dirà solo qualche parola e a determinati personaggi. Forse i più onesti con loro stessi, che si riveleranno gli emarginati, gli incompresi, all’interno della comunità. Saranno gli unici a mostrarsi nella loro fragilità.
In “A me puoi dirlo” è presente anche una riflessione sottesa e costante sulla religione, che raggiunge l’apice nella giornata del Festival del perdono. Un giorno assurdo in cui chiunque confessa i propri peccati, alcuni davvero orribili, a un pubblico bendato che avrà come unico compito quello di perdonare.
Tutti, per qualsiasi cosa. Perché bisogna sempre dare una seconda possibilità. Perché va bene essere imperfetti. Ma quanto è facile esserlo quando si sa già la data del prossimo Festival? Quanta ipocrisia, malcelata da fede religiosa?
Anche questa volta, terminato di leggere “A me puoi dirlo” sono tante le domande che mi rimbombano in testa. Una su tutte: ma chi è davvero Panca?
Non so com’è che a volte riesco a scorgere tutte queste cose nelle persone – queste cose inespresse – e anche se in alcuni casi mi è servito, credo, io spesso me la vivo come una condanna, questa mia capacità di vedere le carenze e i bisogni insoddisfatti della gente dietro le maschere che dovrebbero proteggerli.
Una coscienza collettiva? Un’entità superiore? Un soffio di vento? Non lo sappiamo. Il suo continuo guardare fuori dalla finestre, sentendosi così sola e indifesa quando si trova in una stanza che ne è priva, è quasi straziante. Che cerca Panca? Cosa vede che noi non riusciamo più a scorgere?
Ancora domande. Catherine Lacey ci riesce di nuovo: mi spiazza e mi porta a pensare che solo una enorme sensibilità riesce a scrivere storie così disarmanti.