“Eloisa e Abelardo” di Manuela Raffa: una delusione
Aspettavo davvero con ansia il nuovo lavoro di Manuela Raffa, ma la lettura di “Eloisa e Abelardo” (Piemme) è stata una delusione, sin dalle primissime pagine. Probabilmente perché, dopo aver amato molto “Francesca“, il libro precedente di questa autrice, le mie aspettative erano molto alte e purtroppo sono state disattese.
TRAMA – 1116, Regno di Francia. Eloisa è una donna fuori dal comune. Chiusa in convento fin da giovanissima, senza sapere nulla dei genitori, non è mai riuscita ad abituarsi a quella vita, una prigione fatta di polvere, silenzio e litanie, per lei prive di senso, ripetute all’infinito. L’unico modo di evadere è chiudersi nella biblioteca del convento dell’Argenteuil e perdersi tra le righe dei manoscritti che lì vengono conservati. Per questo, il giorno in cui le viene consegnata la lettera di suo zio Fulberto, che la invita a raggiungerlo a Parigi a vivere con lui, fuori da quelle odiate mura, Eloisa non crede ai propri occhi. La libertà. Finalmente la libertà che tanto ha desiderato assaporare. Pietro di Berengario, noto in tutta Parigi come Abelardo, è uno dei filosofi più celebri del suo tempo. Le sue lezioni all’università sono seguite da centinaia di studenti. Per quello ha lasciato la primogenitura e il suo castello in Bretagna e ha preso i voti, perché era il solo modo per poter dedicare la sua vita all’unica cosa che per lui abbia un senso: il sapere. Quando Eloisa e Abelardo si incontrano − lo zio di lei ha voluto concedere alla nipote una vera istruzione con il maestro più rinomato del momento − la loro è quasi una sfida. Diffidente lui, perché non pensa che una donna possa meritare la fama di letterata con cui viene acclamata Eloisa. E orgogliosa lei, che sente il rifiuto di Abelardo ad accettare la sua intelligenza. Ed è proprio questo il momento in cui sboccia il loro amore, in cui passione e intelletto fungono da trama e ordito, un’unione che è di corpi quanto di anime e menti. Tanto grande nella gioia quanto disarmante nel suo drammatico epilogo, che li porterà prima a mentire e a imbrogliare chi li ama, poi a perdere tutto e a vivere separati per sempre.
La prima cosa che mi ha fatto storcere il naso di “Eloisa e Abelardo” è stata la scelta di replicare l’impianto narrativo del romanzo precedente. Anche in questo caso ogni capitolo inizia con la prima persona, la voce è quella dello zio di Eloisa, Fulberto, per poi continuare in terza, narrando la storia dei due protagonisti e di chi gli ruota intorno. Non che non sia, in generale, una scelta interessante (tant’è che in “Francesca” è stato per me uno dei punti di forza), ma se ha funzionato una volta non vuol dire che bisogna fotocopiarla di libro in libro. Avrei preferito uno sforzo in più da parte dell’autrice per regalare al lettore un’altra chiave narrativa.
Sempre su questa scelta, un’altra considerazione. I due protagonisti hanno due caratteri molto diversi e secondo me non sono emersi come avrebbero potuto e dovuto. L’arroganza di Pietro, il suo sentirsi superiore, la sua durezza, la sua parte detestabile – che poi sarà quella predominante – a mio avviso non esce fuori se non in modo appena accennato e sempre attraverso gli occhi di qualun altro. Così come le tante sfaccettature di Eloisa, un personaggio davvero molto complesso, che non si riescono ad afferrare bene durante la narrazione. Si apre un piccolo spiraglio solo verso la fine del libro, quando di Pietro scorgeremo solo l’ombra ed Eloisa sarà più presente. È stata l’unica parte del libro che ho apprezzato, specie quando lei si racconta in prima persona. Peccato, perché probabilmente decidere di non usare la terza persona avrebbe dato maggiore respiro all’intera narrazione e più corpo ai due personaggi.
Per quanto rigaurda la storia, credo che nel tentativo di condensarla in un romanzo non particolarmente lungo, il risultato sia stato quello di non andare mai a fondo. La sensazione è quella di rimanere, fin troppo spesso, in superficie. Ma non è stato, a mio avviso, solo un problema di lunghezza o di complessità di una vicenda che attinge dal reale, dal quale non ci si può discostare. Questo allontanamento della trama dalla storia, secondo me, è avvenuto anche perché l’autrice si è concentrata molto più sullo stile e sulla scelta delle parole che sui fatti narrati e sulle emozioni che ne derivavano.
Con “Eloisa e Abelardo” ho fatto fatica a immergermi nelle situazioni descritte, a entrare nella narrazione, ad avvicinarmi ai protagonisti: lo stile usato dalla Raffa mi ha tenuta spesso a distanza, sensazione che non ho mai avvertito in “Francesca“. Mi dispiace fare continuamente il paragone ma è inevitabile dato che il romanzo precedente l’ho amato molto, l’ho consigliato e regalato, e questo nuovo ho fatto fatica a terminarlo.
La parte più difficile da affrontare è stata quella centrale: il continuo tira e molla tra i due, questo “Sì, sposiamoci”, “No, non possiamo, tu non puoi vivere senza la filosofia”; “Dai, forse è meglio se ci sposiamo”, “No, tu devi essere un grande filosofo”, è stato sfiancante. E devo dirvi che mi ha anche fatto un po’ sorridere. “Come avrebbe potuto essere un grande filosofo con accanto moglie e figli?”, si chiede a un certo punto Eloisa. E io subito ho pensato: “Oddio, e Socrate come avrà fatto con tre figli e quella palla al piede di sua moglie Santippe???”.
Non mi addentro sulla visione parecchio diversa che ho io della filosofia che non è né “presunzione” né “desiderio di perseguire i propri obiettivi a ogni costo” come si legge in un passaggio del romanzo, perché sarebbe uscire fuori tema, ma alcune considerazioni – e il nome di Aristotele buttato qui e là giusto per citare qualcuno – mi hanno dato i brividi.
Non ho letto i testi che la Raffa cita in bibliografia, ma durante i miei studi ho amato Jean-Jacques Rousseau e il mio pensiero andava sempre a “Giulia o la nuova Eloisa”. Mi sa che per rimettermi in sesto me ne andrò a leggere qualche passaggio…