“Luce rubata al giorno” di Emanuele Altissimo: un esordio da attenzionare
“Luce rubata al giorno” di Emanuele Altissimo (Bompiani) è un esordio molto intenso, un romanzo che tratta temi forti senza cadere nel banale, mosso da precisi intenti che sono ben coniugati allo stile e alla forma utilizzati.
TRAMA – Questa è la storia di due fratelli e dell’estate che segna per sempre le loro esistenze. Diego, Olmo e il nonno sono in montagna, nella baita comprata dai genitori prima di morire. La speranza è che quei luoghi portino serenità nell’animo di Diego, il fratello maggiore, eternamente irrequieto. Ma appena si alza il vento le seggiovie tremano e le nubi proiettano sui valloni ombre profonde. Solo Olmo capisce che Diego sta scivolando in un universo dove non si può raggiungerlo, un delirio che sembra crescere fino a toccare il cielo. E darebbe tutto ciò che ha per salvarlo. In ingegneria si parla di tensione ammissibile: il punto massimo di sforzo a cui si può sottoporre un edificio prima che collassi. L’Empire State Building, per esempio, sopravvisse all’urto di un Bomber B-25. Giorno dopo giorno, Olmo costruisce proprio il modellino dell’Empire State: con infinita pazienza, consapevole che la forza dell’edificio sta nella posa di ogni singolo mattoncino. Ma qual è la tensione ammissibile per una famiglia, per l’amore che tiene insieme le persone?
È stata questa domanda della sinossi, “qual è la tensione ammissibile per una famiglia, per l’amore che tiene insieme le persone?”, a farmi incuriosire alla storia di Olmo, Diego e nonno Aime. Ammetto che ho iniziato a leggere “Luce rubata al giorno” con un approccio sbagliato. Cercavo risposte fin da subito, cercavo un’emotività intensa sin dalle prime pagine. Poi, da quando mi sono resa conto che a narrarmi la storia era un ragazzino di 13 anni, la prospettiva è cambiata, così come le mie aspettative, e mi sono resa conto del lavoro che ha compiuto l’autore per darmi quel punto di vista.
Olmo ha perso i genitori in un incidente stradale e adesso affronta l’estate dei suoi 13 anni insieme al nonno, un omone su cui è facile appoggiarsi senza rendersi conto di quanto peso si porti già addosso, e al fratello Diego, 21 anni, un giovane incapace di perdonare il passato, di accettare il presente, di ipotizzare un futuro.
Quell’estate viene raccontata in “Luce rubata al giorno” quasi come un flusso di coscienza, un episodio dietro l’altro, in un crescendo di tensione che cammina parallelo alla caduta che compie Diego. Olmo e il nonno proveranno in tutti i modi ad aiutarlo, il piccolo di casa dovrà guardare in faccia la paura in più di un’occasione, durante le quali nemmeno il lettore ne uscirà indenne, ma non smetterà mai di amare suo fratello.
“Pensavo fosse più facile smettere di voler bene”.
“Certo che lo è” risponde. “Ma ho dimenticato d’insegnartelo”.
C’è un passaggio, forse sembrerà banale, ma mi ha colpita particolarmente perché mi ha fatto riflettere su quanto prendersi cura di chi ha bisogno non sia semplice, su come si finisca per compiere gesti inutili, per poi arrabbiarsi senza avere qualcuno con cui prendersela per davvero:
Raccolse i piatti e li mise nel lavello. Lavò quello di Diego, anche se era pulito. Dopo averlo asciugato attraversò la stanza e lo scagliò fuori dalla finestra.
Nonno Aime pensava che tra quelle montagne avrebbero trovato la pace e invece tutto andrà diversamente. Le voci nella testa di Diego continueranno a gridare, anche nel silenzio del bosco, e lui finirà per spingersi troppo oltre per poter continuare a vivere all’interno di quella piccola comunità di montagna. Ancora una volta, “gli altri”, “il mondo”, gli diranno che ha sbagliato, che così per com’è non può essere accettato, glielo diranno dentro una busta o con la vernice spray su un muro, e per lui non resterà altro che mettersi in cammino.
Qual è la meta? Diego non lo sa, ma più si allontana e più il pensiero va ad Olmo e al nonno. Come una forza che lo richiama sempre all’origine, Diego oscillerà tra l’amore che avverte e la spinta che lo muove. Da parte loro, Olmo e Aime non troveranno mai un modo per riempire il vuoto che ha lasciato, non sapranno andare avanti se non un passo alla volta, o meglio, mattoncino dopo mattoncino.
In “Luce rubata al giorno” ho trovato molto originale e di grande presa il paragone della famiglia con la vicenda dello schianto di un Bomber B-25 contro l’Empire State Building. Il grattacielo assorbì l’impatto perché “ogni sua parte lavorò insieme per riassestarlo”. L’immagine mi ha colpita perché nella sua verità racchiude i gesti che compiamo ogni giorno, anche quelli più insignificanti, ma che ci muovono insieme fino alla ricerca di una stabilità, tra gli scossoni che la vita non ci fa mai mancare.
Un altro momento di riflessione me l’ha regalata l’alternarsi di buio e luce. “I guai amano il sole”, dice Diego ad Olmo, eppure lui quella luce non ha smesso di cercarla, anche da grande ne ruba un po’ al giorno mentre costruisce un nuovo inizio. Forse perché Olmo è rimasto bambino, intrappaloto nei suoi 13 anni, e la paura più ancestrale è quella del buio. Il buio che, nella sua forma più spaventosa, ha inghiottito suo fratello. Io ancora oggi, quando devo accendere la prima luce in casa, sento quel vecchio mal di pancia che mi angosciava da bambina. Più del buio mi ha sempre destabilizzata il momento in cui la luce sta per spegnersi: quando arriva la sera mi sembra quasi di aver sciupato un’occasione, di aver perso un momento che non tornerà. Forse devo imparare da Olmo e cominciare anche io a rubare un po’ di luce.
Lo stile scabro dell’autore, anche se personalmente non è quello che preferisco, è sicuramente la forma migliore per il romanzo e per il punto di vista utilizzato. La storia di “Luce rubata al giorno” mi ha davvero colpita e adesso sono curiosa di sapere se Emanuele Altissimo in futuro saprà raccontarci altre emozioni…