Recensione in anteprima: “Madonna col cappotto di pelliccia” di Sabahattin Ali
“Madonna col cappotto di pelliccia” di Sabahattin Ali (Fazi) è un delicato, quanto doloroso, romanzo di formazione che arriva in libreria oggi, 10 gennaio.
TRAMA – Ci sono incontri casuali in grado di segnare un’intera esistenza. E ci sono storie che restano segrete per una vita intera ma poi, una volta raccontate, fanno il giro del mondo. Quando ad Ankara, negli anni Trenta, un giovane conosce sul posto di lavoro Raif Effendi, viso onesto e sguardo assente, è subito colpito dalla sua mediocrità. Man mano che i due entrano in confidenza, questa prima impressione non fa altro che ricevere conferme: schernito ed evitato da tutti sul lavoro, Raif viene maltrattato persino dai suoi familiari. Quale può essere la ragione di vita di una persona simile? Quale, se c’è, il segreto dietro una vita apparentemente inutile? Il taccuino di Effendi, consegnato in punto di morte al collega, contiene le risposte, raccontando una storia tutta nuova: dieci anni prima, un giovane e timido Raif Effendi lascia la provincia turca per imparare un mestiere a Berlino. Visitando un museo, rimane folgorato dal dipinto di una donna che indossa un cappotto di pelliccia, e ne è così affascinato che per diversi giorni torna a contemplare il quadro. Finché una notte incrocia una donna per strada: la stessa donna del dipinto. Maria. Un incontro che gli sconvolgerà la vita.
Non è facile parlarvi di “Madonna col cappotto di pelliccia” perché è un romanzo breve molto intimo, a volte quasi chiuso in se stesso, come un piccolo nautilus. Mi ha ricordato i testi di formazione di Goethe e Rousseau anche se, a differenza di quest’ultimi, non si tratta di un romanzo epistolare. Sarà solo Raif Effendi, attraverso il suo taccuino, a raccontarci la sua storia. Secondo me sarebbe stato interessante trovare all’interno del libro anche qualcosa scritto da Maria, avrebbe arricchito queste pagine: il suo punto di vista rimane enigmatico, forse volutamente, ma essendo altamente volubile e fragile mi sarebbe piaciuto leggere qualcuna delle sue lettere di cui si accenna sul finire.
Ma tornando a “Madonna col cappotto di pelliccia”, è possibile dividerlo in due momenti. Nella prima parte a presentarci Raif è un suo collega, che non si fa scrupoli nel criticarlo senza mezzi termini. L’autore pone l’accento sullo sguardo che posiamo sugli altri, sul facile giudizio – stortura di ogni tempo, amplificata nel nostro – su come fuggiamo da noi stessi analizzando chi ci siede di fronte.
Persino il più semplice, il più sfortunato e, addirittura, il più sciocco degli uomini possiede un universo interiore meraviglioso e complesso al punto da destare stupore! Perché non vogliamo vederlo e pensiamo che comprendere e giudicare il prossimo sia la cosa più semplice del mondo? Ci guarderemmo bene dall’esprimere un parere su un formaggio che non abbiamo mai assaggiato prima, ma siamo pronti a esprimere un giudizio tassativo su un individuo che incontriamo per la prima volta. Perché?
Ma la freddezza e il distacco di Raif hanno radici profonde che conosceremo nella seconda parte del romanzo, attraverso la lettura del suo taccuino, dove narra eventi lontani che gli sconvolsero la vita, segnando per sempre il suo cammino. Lo conosciamo giovane, incapace di esternare quello ciò che nasconde nel cuore, di capire quale sia il suo posto nel mondo o di ammettere quali siano i suoi veri desideri.
Facile preda dello sconforto e grande sognatore, Raif non riesce a ritrovare nella realtà i personaggi dei libri che tanto ama, non comprende che “nulla al mondo può mai eguagliare le meraviglie che riusciamo a evocare nella nostra mente”, fino a quando non si imbatte in un dipinto del quale resta del tutto ammaliato.
Rappresentava la sintesi perfetta di tutte le figure femminili che da sempre popolavano i miei sogni.
Raif scoprirà che si tratta di un autoritratto e conoscerà Maria, autrice del dipinto. Lì inizierà un vortice di emozioni e di incomprensioni, di presa di coscienza tra ciò che reale e ciò che è sublimato dall’arte, dalla nostra fantasia, dalla nostra immaginazione.
La distanza tra arte e vita, tra speranza e realtà non è un tema nuovo nella letteratura, così come non lo sono le dinamiche che si sviluppano tra Raif e Maria, ma lo stile dell’autore ha senza dubbio conferito un tocco di originalità alla narrazione. Alcuni temi vengono affrontati con grande naturalezza, nonostante la loro complessità, ed entrare in empatia con Raif sarà facile, così come soffrire con lui, in un crescendo di pathos.
Sono molto belli i momenti in cui il protagonista capisce di essere schiavo della sua emotività; le sue riflessioni sull’incapacità di essere felice o di mostrarsi tale, di non essere mai in sicronia con il suo complicato mondo interiore. Raif ci racconta come l’amore può coglierci del tutto impreparati, specie se lo abbiamo sempre sognato e immaginato in un determinato modo, che la vita è un continuo capovolgimento delle nostre certezze, che esprimere ciò che abbiamo nel cuore è una delle cose più difficili. E che sono le occasioni mancate che non riusciamo a toglierci dalla mente e che più ci feriscono.
Un romanzo delicato e doloroso, come dicevo all’inizio, un concentrato di malinconia che fa riflettere sulla condizione così labile dell’essere umano, in continua balia delle proprie emozioni e di quelle degli altri che inevitabilmente ci influenzano e ci plasmano.