“Dieci cose che avevo dimenticato” di Lucrezia Sarnari: che delusione
La mia lettura di “Dieci cose che avevo dimenticato” di Lucrezia Sarnari (Rizzoli) è cominciata carica di aspettative. Copertina bellissima, trama interessante, e poi… la delusione.
TRAMA – Marta e Giò sono sorelle, e non potrebbero essere più diverse. Giò vive a Parigi, è libera, senza legami – tranne quello con la sua gatta che l’aspetta a casa la sera – e ha intrapreso una brillante carriera nella pubblicità. Marta invece ha scelto l’amore per il compagno e il figlio di tre anni: da Milano si è trasferita in provincia e lavora come speaker in una piccola radio. A volte ripensa al sogno di diventare fotografa che ha abbandonato per fare la mamma, ma sa che il coraggio e la determinazione della sorella, lei non riuscirebbe a trovarli. Un giorno, però, tutto viene messo in discussione: Giò e Marta ereditano la pasticceria di famiglia e fanno ritorno in Umbria, nel paese dei loro giochi di bambine. Lì, tra ulivi e buon vino, le giornate rallentano e, inaspettato, arriva il momento di capire se quello che hanno costruito le appaga davvero o se bisogna ripartire da zero. E poi c’è lui, uno che sa sempre trovare le parole giuste, e che sconvolgerà le vite di entrambe…
Partiamo da una premessa, un’ovvietà che spesso viene dimenticata. Leggere un libro, come ascoltare una canzone, assaggiare un dolce, guardare un quadro, è un’esperienza sensoriale del tutto soggettiva. Ciò significa che se “Dieci cose che avevo dimenticato” non mi è piaciuto non significa che non possa essere stato un libro meraviglioso per altri. Significa, molto semplicemente, che lo abbiamo vissuto in modo diverso e che le emozioni che sono scaturite dalle lettura sono differenti.
Lo sottolineo perché nel caso di questo romanzo l’emotività gioca un ruolo fondamentale e nessuno può discutere che sia soggettiva. Dall’altra parte, però, anche se non posso dire che il libro non sia scritto bene, che non sia scorrevole, ho trovato diverse cose che mi hanno fatto storcere il naso e che provo a spiegarvi in questo post.
“Dieci cose che avevo dimenticato” affronta dei temi che sono importanti per tutti: cosa significa essere felici, quale sia il modo più corretto per affrontare la vita, il mettersi in gioco, il voler essere realizzati e provare a conoscersi per davvero. Argomenti, scogli, difficoltà con i quali ciascuno di noi si è confrontato (o si confronterà) e che inevitabilmente ti fanno pensare. Personalmente, leggendo di Marta e Giò non mi sono emozionata nemmeno in un passaggio della loro storia, e non sono riuscita a entrare in empatia con loro due.
Come si legge nella trama, Marta e Giò non potrebbero essere più diverse, dato che la prima ha scelto la famiglia e la seconda la carriera. Una semplificazione che nel corso del romanzo verrà continuamente messa in discussione, ribaltata e sviscerata, facendo conoscere meglio le due protagoniste, ma molto spesso ripetendo le stesse cose. Diciamo che alla prima, le avevo già capite.
La morte della nonna le riunirà: al funerale la madre consegnerà loro una lettera in cui c’è raccontato un segreto abbastanza significativo. Lo è talmente tanto che sono tutte sconvolte, ma l’autrice non ci tornerà più. Perché inserirlo allora? Giò viene presa da un ricordo, ma non lo condivide nemmeno con la sorella. Capisco che la nonna venga presa come esempio – ovviamente non posso entrare nel particolare ma si tratta di scelte di vita molto importanti – e che sia strumentale nella narrazione per fare da monito, ma mi sarei aspettata qualcosa di più in merito.
Sempre in quella lettera, le nipoti scoprono di essere le eredi della pasticceria della nonna che si trova in un paesino sperduto dell’Umbria, Collestefano, dove si recheranno e dove evidentemente l’aria è satura di qualche sostanza strana. Com’è possibile che da un giorno all’altro le due sorelle vengano prese da mille dubbi esistenziali? Marta, prima di partire, non si vorrebbe separare da suo figlio Vittorio nemmeno per cinque minuti; passate 24 ore per poco non si ricorda più nemmeno come si chiama: “Non ho nemmeno voglia di vedere Vittorio. Cioè sì, ne ho voglia, ma non ho voglia di tornare alla mia vita, non ora”. Molto bene.
Giò, a un passo dalla firma dalla promozione a socio di un’agenzia pubblicitaria che fattura milioni di euro, con la sua vita parigina fatta di amanti giovani e un po’ bohémien, che si batte per le sue decisioni da una vita credendo fermamente di essere nel giusto, appena mette piede in Umbria, cambia del tutto idea. Oh che bello non lavorare e stare a bere vino come se non ci fosse un domani! Complimenti per la scoperta!
Avere dei tentennamenti e pensare alla vita che ognuna di loro ha al di fuori di quella parentesi è del tutto legittimo, normale aggiungerei, ma mi sarei aspettata, da parte dell’autrice, un andamento più graduale nell’affrontare questi dubbi. Leggendo il romanzo ho avuto come la sensazione che Lucrezia Sarnari scendesse i gradini di una scalinata tre alla volta, quasi di premura, anziché uno per volta.
Dato che l’aria è strana, i ricordi bellissimi e dolcissimi sulla nonna (forse sarebbe stato meglio scrivere un romanzo su di lei) vengono subito accantonati. Alla nonna non ci si pensa più quando entra in scena Marco, il belloccio di turno.
Marco, il ragazzo che quando era bambino non se le filava di striscio perché più grande di qualche anno e che adesso è sexy e affascinante, mi è sembrato un concentrato di frasi fatte. La stessa Giò a un certo punto dice: “Marco è pieno di fascino, è innegabile, e ha una spiccata sensibilità. Mi chiedo, però, se non sia un grande bluff”. Lo è, eccome. Eppure entrambe sembrano non poter resistere al suo fascino e lui ne approfitta senza battere ciglio. Un personaggio di uno squallore non indifferente che viene salvato dietro il “poverino, ancora non sa cosa vuole dalla vita”. A quarant’anni? Non regge, è solo uno sciupafemmine che ha imparato quattro frasi a effetto a memoria.
Insomma, le due sorelle nel giro di due settimane saranno come nuove, pronte a ripartire, dopo una serie di soliloqui pieni di domande. Un po’ troppo lunghi, un po’ troppo incentrati sempre sugli stessi punti, un po’ troppo e basta per i miei gusti.
Al di là di queste cose che non mi hanno colpito emotivamente, ci sono un paio di scelte strutturali che mi hanno lasciato perplessa.
Sul finire è stato inserito un capitolo in cui a parlare è, per la prima e unica volta, Anna, l’amica che ha scelto di abitare in quel paesino. Mi è del tutto sfuggito il senso. Ho solo pensato: “E queste tre si credono amiche? Ma sanno che significa esserlo?”.
Un’altra cosa che non ho capito è perché il capitolo finale, quello del “cosa è successo dopo”, lo abbiamo solo per Giò. E Marta? Ce la siamo accollata per tutto il libro per poi non sapere più niente? Mah.
Insomma, per me “Dieci cose che avevo dimenticato” è stato davvero una delusione.
Questo libro mi è stato gentilmente inviato in copia digitale dalla casa editrice Rizzoli.
Finalmente una recensione spontanea e non, come tutte le altre che si trovano online, fatte palesemente dalle amiche blogger dell’autrice a cui lei ha inviato il libro sapendo che avrebbe ricevuto solo elogi.
Grazie Anna!
Anche io concordo con te: un libro deludente e a tratti perfino noioso ! Non avrei potuto descrivere meglio i difetti che ho riscontrato ! Brava !
Grazie!